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Il paesaggio come eros della terra. Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi, 2013

Lo stretto legame tra poesia e paesaggio è ben noto, anche se spesso si ritiene che il paesaggio sia, nella vita come nella letteratura, semplicemente lo sfondo sul quale si svolgono le vicende umane, nel quale è possibile cogliere il riverbero emotivo dei sentimenti dell’autore/attore che, a seconda dei casi, vi trova conforto o lo considera come cassa di risonanza dei propri stati d’animo. 

Vi sono tuttavia poeti per i quali il paesaggio è molto più di questo, e diventa non solo un “tema”, ma la lente attraverso cui guardare a tutto il proprio mondo. Uno di questi, forse il più noto, è Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 1921 – Conegliano, 2011). Accanto alle raccolte di versi – la prima delle quali, significativamente, intitolata Dietro il paesaggio (1951) – Zanzotto ha anche pubblicato, in modo non sistematico, una serie di prose incentrate sul paesaggio: sono articoli, saggi, memorie, che si snodano tra gli anni Cinquanta e i primi Duemila. Il suo paesaggio d’elezione è quello veneto, che non abbandonò mai e che disegna inframmezzando i ricordi delle sue passeggiate in montagna con gli echi delle lettere di Petrarca (che trascorse sui Colli Euganei l’ultima parte della sua vita), gli itinerari lagunari con le descrizioni di opere pittoriche, dalla Scuola veneta del XV secolo fino al Settecento, poiché «è pur vero anche oggi che qualunque tentativo umano di cogliere, sia pure per un solo attimo, il rapporto con una verità potenzialmente globale in cui origine della natura e origine dell’io si incontrino, sottintende comunque una visione-idea che è il paesaggio come è stato mediato soprattutto dalla pittura».

 

Queste prose sparse sono state raccolte nel volume Luoghi e paesaggi, a cura di Matteo Giancotti, edito da Bompiani a due anni dalla scomparsa dell’autore.

Zanz

Sebbene, dunque, il paesaggio di riferimento dell’autore sia diverso da quello piemontese, è anch’esso molto vario, parimenti caratterizzato da montagna e collina e almeno altrettanto ricco di stratificazioni storiche, non solo nelle città, ma anche nella campagne – basti pensare al paesaggio rurale antropizzato delle ville palladiane. A partire dal secondo Dopoguerra, Zanzotto è stato testimone dell’avvio di una trasformazione del territorio all’insegna del “progresso” – che non ha risparmiato neanche i nostri fondovalle – di cui ha precocemente colto i potenziali rischi. Il rapporto tra il soggetto e il paesaggio che l’autore delinea offre a tutti i lettori inediti spunti di riflessione, e rammenta a coloro che operano fattivamente sul paesaggio quale oggetto prezioso stanno maneggiando e dove risiedono le ragioni profonde del suo valore.

Vi anticipiamo qui di seguito alcune suggestioni, invitandovi a intraprendere la lettura dell’intero volume per meglio cogliere come si possa parlare efficacemente di tutela del paesaggio con un atteggiamento e un linguaggio al contempo puntuale ed evocativo, in modo non meno poetico di una raccolta di versi.

 

Verso-dentro il paesaggio

«Resta sempre in sospeso, non è mai passibile di una definizione totalizzante, ciò che da molto tempo si pone come un orizzonte aperto di ogni attività psichica – si direbbe quasi – e cioè una certa idea di paesaggio. (…) Quel cerchio di luci, ombre, vaghe figure che continua a inanellarci col suo tessersi, smagliarsi, ricomporsi – solo che si esca per un attimo dalle metropoli – ci arriva sempre come paesaggio, persino nella prospettiva degli aerei, resta l’epifania più adeguata della “natura”. (…) paesaggio: qualche cosa che non si stanca mai di lasciarsi definire, anche attraverso le parole, mentre è in fuga da ogni possibile definizione perché in sé le racchiude tutte».

 

Ragioni di una fedeltà

«L’insediamento umano nel quadro naturale costituito dal paesaggio potrebbe apparire del tutto accidentale o senza senso o addirittura dannoso come una piaga. (…) Ma se, con sufficiente orgoglio e sufficiente umiltà, ci si colloca sul piano dell’uomo (ed è questo il postulato implicito in ogni discorso che dall’uomo provenga), è necessario che riappaia un senso della presenza umana nel quadro naturale. (…) E allora l’insediamento-piaga scompare per lasciare il posto all’insediamento-fioritura, che un ambiente terrestre deve essere pronto a ricevere, anzi è in qualche modo predestinato a ricevere. A questa scommessa non si può sfuggire; l’uomo, quale momento più ardente della realtà naturale, si colloca in essa al punto giusto, la riordina alle sue leggi e in ciò stesso ne rivela la preumanità, quell’attesa in cui essa si presentava alla sua più completa riuscita (se non osiamo dire più alta). E tale “collocarsi” dell’uomo assume piena evidenza quando lo si considera sotto l’aspetto dell’insediamento, giacché questo, come i lineamenti di un volto, traduce in termini sensibili tutta una storia della ragione, il suo sfolgorante successo, oppure, come purtroppo è possibile che accada, il suo fallimento. Il paesaggio viene dunque ad animarsi e a meglio splendere nel lavorio umano che vi opera, perché al di sotto della sua apparente insignificanza esistevano elementi che un “giusto” antropocentrismo ha fatto risaltare. Nello stesso tempo un tipo determinato di società manifesta la propria raggiunta maturazione potenziando quella che si potrebbe dire l’espressività della figura di un territorio, grazie all’insediamento che vi si è formato e che ha trovato le sue motivazioni socio-economiche nelle particolari possibilità vitali offerte dal territorio stesso. (…) L’Italia stessa è testimonianza, nel bene e nel male, di questi fenomeni, forse più di qualunque paese del mondo».

[Lo spopolamento dei paesi, che dipende dall’attrattività economica esercitata dai centri maggiori, comporta che] «resta quasi dovunque sfregiato il volto antico delle città e le campagne vengono infiltrate da una specie di sfilacciato tessuto urbano, proliferante in costruzioni amorfe, come quelle villette-benessere che, se saziano un’antica fame di abitazioni per tutti, oscurano con la loro caotica disseminazione ogni angolo del paesaggio. In questo clima tutto ciò che riguarda la conservazione di strutture d’insediamento sviluppatesi nel passato (senza che qui ci si voglia riferire a centri già riconosciuti come monumentali) rischia di apparire soltanto come un bel gesto, un omaggio a un tipo di equilibrio ormai tramontato, nell’attesa di altri equilibri ancora di là da venire». [In ogni caso, il recupero degli edifici antichi non va derubricato a fenomeno nostalgico, ma è positivo] «perché dietro a queste case è sempre vivo quel contesto che è il più ricco e perenne in cui sia dato inserirsi e al quale esse di fatto continuano ad armonizzarsi, cioè quel paesaggio che acquistò in esse alcuni tra i suoi più validi “punti di evidenza” umani».

 

Testo di Paola Gastaldi